Editoriale del numero 7 di FUTURI

La “futurologia” è nata con la demografia e la sua capacità predittiva. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, il problema della crescita esponenziale della popolazione mondiale era così sentito da non far dormire sonni tranquilli a molte persone. In Cina si iniziò ad applicare una severa politica di controllo delle nascite. Nei paesi occidentali si iniziarono a elaborare le prime, preoccupanti proiezioni. È nota l’affermazione che, in quel periodo, fece lo scrittore e scienziato Isaac Asimov: se il tasso di crescita della popolazione fosse proseguito senza conoscere rallentamenti, entro duemila anni l’umanità avrebbe superato il peso della stessa Terra. Dopodiché, per lunghi anni questo problema è passato in secondo piano, di fronte al rallentamento della crescita nei paesi occidentali, al contenimento della popolazione cinese, all’evidenza secondo cui, al crescere della ricchezza di un paese, decresce il tasso di natalità. Ma le ultime stime dell’ONU ci ricordano che il problema è ancora lì, irrisolto. Anzi: mentre il continente africano oggi minaccia di diventare la nuova Cina, con una popolazione destinata a triplicare nell’arco di questo secolo, i paesi occidentali sono stretti nella morsa della bassa natalità e dell’invecchiamento della popolazione.

Tocca ancora una volta alla futurologia, o meglio ai futures studies, riportare l’attenzione del grande pubblico su questi temi. La rivoluzione demografica che stiamo vivendo è infatti la madre di tutte le sfide che dovremo affrontare nei prossimi decenni. Tutte le altre sono sua diretta conseguenza. Più persone significa più cibo, quindi più aree del pianeta che saranno destinate alla coltivazione e all’allevamento, con la conseguente riduzione della biodiversità e dei polmoni verdi del pianeta, e l’aumento – all’opposto – delle emissioni climalteranti in atmosfera. Più persone vuol dire esigenza di più spazio, con città sempre più grandi; vuol dire maggiore pressione sulle riserve d’acqua dolce; più consumi e quindi più inquinamento. Più persone significa che occorrono nuovi posti di lavoro, in un mondo che già non sa più cosa inventarsi, in termini di nuove professioni, di fronte alla crescita dell’automazione, che rende ormai obsoleta la tradizionale forza lavoro. D’altro canto, meno persone nei paesi occidentali – e in primis in Italia – significa città svuotate, insostenibilità dei sistemi previdenziali, aumento della spesa sanitaria, ma anche perdita di innovazione e calo della crescita economica. Uno studio recente del World Economic Forum sostiene che l’invecchiamento della popolazione nei paesi OCSE sia tra le componenti che possono spiegare l’attuale contingenza economica, e che da qui al 2030 calerà il numero di ore di lavoro complessive, in seguito al pensionamento dei baby-boomers, e di brevetti registrati, conseguenza della naturale perdita d’innovatività al crescere dell’età anagrafica. E questo per tacere dei problemi legati agli esodi dal Sud al Nord del mondo, che stanno alimentando un rigurgito nazionalista in Europa, mettendo a serio rischio il già fragile processo di integrazione e minando alla base gli stanchi regimi democratici.

Non esistono soluzioni semplici a questi problemi. Se quarant’anni fa sembrava bastasse intervenire con politiche incisive di contenimento della popolazione, oggi dobbiamo fare i conti con l’esigenza di ridare slancio alle nascite nei paesi europei. In ogni caso dobbiamo iniziare ad abituarci all’idea che la rivoluzione demografica muterà completamente il mondo in cui vivremo il resto della nostra vita.