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Occupare il futuro

Avevo pensato a questo titolo un anno e mezzo fa, insieme all’idea di dividere il libro in tre parti, intitolate rispettivamente “Occuparsi del futuro”, “Preoccuparsi del futuro” e “Occupare il futuro”. Poi durante una chiacchierata Michele Bellone (editor di saggistica di Codice), che stava lavorando a un articolo per “Le Scienze” su fantascienza e immaginazione del futuro, mi fa: “Ma non è che hai un’idea per un libro?”. Non sapeva, poverino, che di idee di libri ne ho pieni i miei bloc-notes. Così “Occupare il futuro” ha iniziato ad assumere forma.

La prima parte del libro, intitolata “Occuparsi del futuro”, è una storia dell’evoluzione dello studio dei futuri, disciplina nata alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, quando divenne chiaro che il sogno positivista di una “scienza del futuro” era destinato al fallimento. La cosiddetta “futurologia” ha a lungo coltivato l’ambizione di riuscire a pervenire a leggi deterministiche della storia e delle dinamiche sociali, sul modello delle leggi fisiche. La celebre “psicostoria” inventata dallo scrittore di fantascienza Isaac Asimov rispondeva esattamente a questa ambizione, che sembrò realizzabile nell’immediato secondo dopoguerra, quando lo sviluppo dei computer e tutta una serie di armamentari matematici e logici (la teoria dei giochi, i modelli Monte Carlo ecc.) vennero messi al servizio, per esempio, della costruzione di scenari per prevedere una nuova guerra mondiale con l’Unione sovietica. Presto divenne chiaro che queste previsioni non erano attendibili, ma si limitavano a disegnare scenari che poi stava al decisore politico realizzare o meno: il futuro, insomma, non è univoco né tantomeno è un destino ineluttabile, ma esiste un ampio margine di azione umano. I futures studies si fondano su questo concetto: la pluralità dei futuri possibili, che Bertrand de Jouvenel chiamava “futuribili”; il ruolo determinante dell’azione umana nel realizzarli o prevenirli; l’assenza di una scienza deterministica per studiarne gli esiti. Sempre de Jouvenel parlava piuttosto di “arte della congettura”, e per svilupparla i futures studies hanno negli anni messo in campo tante metodologie diverse, oggi ampiamente usate, per esempio, nell’ambito del cosiddetto strategic foresight, la previsione strategica di governi, istituzioni e imprese.

La seconda parte, “Preoccuparsi del futuro”, parte dal grande sforzo del Club di Roma che, nel 1972, portò al rapporto The Limits to Growth, che per primo indicò i rischi di una crescita economica continua in un mondo di risorse finite. Quello studio, ancora oggi validissimo, mostrava già la necessità di passare da un’analisi avalutativa dei futuri possibili a un nuovo approccio più normativo, il cui fine è l’individuazione del cosiddetto “futuro preferibile”, lo scenario migliore che vogliamo realizzare. Da qui la seconda parte del libro giunge ad affrontare tutto il recente filone dello studio dei rischi esistenziali, che ci fanno riflettere su quanto l’umanità stia rischiando oggi principalmente a causa di un’accelerazione non governata: rischiamo la catastrofe non tanto per motivi indipendenti da noi (l’esempio più tipico è quello messo di nuovo in scena di recente dal film Don’t Look Up, ossia essere colpiti da un asteroide), ma per cause “antropogeniche”, ossia prodotte dall’Uomo. La sesta estinzione di massa è già in corso e le sue implicazioni per la nostra sopravvivenza sono inquietanti; il cambiamento climatico minaccia la tenuta stessa della civiltà; a questo si aggiungono altri temi, come i rischi legati all’avvento di una superintelligenza artificiale non allineata ai nostri fini e valori.

La terza parte, che dà il titolo al libro (“Occupare il futuro”), analizza le principali sfide e scenari di lungo termine da una prospettiva non solo analitica, ma trasformativa. L’idea è che ai futures studies oggi compete non solo lo studio dei futuri, ma anche una chiara indicazione sulle diverse soluzioni per uscire dalla gabbia del presentismo e immaginare futuri completamente nuovi. Il primo capitolo di questa sezione affronta il tema dell’Antropocene, l’insieme delle trasformazioni della biosfera prodotte dall’Uomo, di cui i cambiamenti climatici sono l’aspetto più evidente, ma non l’unico: il tema comprende l’ipertrofico aumento del “peso” della nostra civiltà sulla biomassa terrestre, che produce una pressione selettiva tale da condurre all’estinzione migliaia di specie, così come l’esaurimento delle risorse e la devastazione ambientale. In Occupare il futuro sostengo che per affrontare l’insieme di questi problemi occorra quello che alcuni hanno chiamato “conversione ecologica”, che parte da un ripensamento completo dei rapporti tra mondo umano e non-umano, in cui la Terra non assume significato solo in termini utilitaristici per la specie umana, ma in quanto habitat dove convivono specie diverse (animali e vegetali) ciascuna con finalità diverse dalle nostre, nei cui confronti dobbiamo mostrare più rispetto.

C’è poi tutto il tema della digitalizzazione, in particolare la concentrazione di potere da parte dei GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) e dei BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi), che attraverso ideologie distorte stanno di fatto arrivando a controllare l’universo digitale. Ciò costituirà un problema ancora più grande quando si avvererà la prospettiva del metaverso, la next big thing del digitale, l’evoluzione prossima ventura di Internet. A quel punto i margini di manovra dell’utente saranno quasi nulli. A ciò si associa la corsa all’intelligenza artificiale, anch’essa sempre più oligopolistica. Qui il discorso è ancor più prospettico, perché a prestar fede alle narrazioni futuristiche dei titani tecnologici e dei loro guru saremmo vicini alla cosiddetta “singolarità tecnologica”, il momento in cui l’intelligenza artificiale supererà in capacità l’intelligenza umana: a quel punto diventa impossibile fare previsioni su questo futuro post-umano. È chiaramente insito qui il pericolo di una disumanizzazione, ciò che C.S. Lewis chiamava “l’abolizione dell’Uomo”, che potrebbe avere per esito finale l’estinzione stessa della nostra specie: se non a causa di una superintelligenza artificiale non allineata con i nostri valori, sicuramente a causa di una pressione selettiva dell’evoluzione dell’intelligenza che vedrà l’Homo sapiens cedere il passo a una nuova specie postumana così come i Neanderthal cedettero il passo alla nostra specie. Anche in questo caso dobbiamo immaginare soluzioni che, senza sfociare nel luddismo, mettano questi progressi al servizio del benessere umano e non di pochi.

È la prospettiva dell’accelerazionismo, che sposo in Occupare il futuro. Ciò risulterà evidente ai lettori soprattutto nel capitolo intitolato “Come lasceremo Fordlandia”, dove analizzo uno dei megatrend più rilevanti per il nostro presente: l’automazione del lavoro e la conseguente disoccupazione tecnologica. La mia ipotesi, in linea con quella di molti studiosi del settore, è che di fronte alla crescita dell’automazione la vera sfida non sia creare nuovi lavori, ma immaginare un futuro post-lavoro in cui la condizione umana venga completamente ripensata, poiché – come già profetizzava John Maynard Keynes – saranno le macchine a lavorare per noi. È una sfida per il XXI secolo che dobbiamo abbracciare se davvero vogliamo assumere una prospettiva lungimirante.

Infine, nell’ultimo capitolo affronto due megatrend che mi sembrano implicitamente uniti: quello del declino demografico e quello dell’espansione umana nello spazio. A lungo i futures studies si sono occupati dei pericoli della sovrappopolazione, potremmo persino dire che siano in parte nati per affrontare questo problema. Oggi, anche se è evidente ancora a pochi, il vero problema sul lungo termine è il declino demografico: le nostre società non sono attrezzate per una popolazione in calo, l’economia di mercato si bassa sul presupposto che la popolazione non possa che aumentare. Come ripensare il nostro futuro in una fase di calo demografico sempre più marcato? Questo riguarda anche il tema dello spazio: all’epoca si parlava della colonizzazione spaziale come un imperativo, perché occorreva nuovo “spazio vitale” per una popolazione in crescita esponenziale. Oggi, venuto meno questo bisogno, come possiamo giustificare l’impresa umana nello spazio? Come possiamo ripensarla senza caricarla di quegli stessi concetti negativi che stanno distruggendo il nostro pianeta, ossia sfruttamento, estrazione, colonizzazione?